Ballo ballo è il musical spagnolo con le canzoni di Raffaella Carrà di cui abbiamo bisogno


Prevedibilmente kitsch e leggero, ma imprevedibilmente fatto con molta testa. La storia è un grande classico: nella vecchia Spagna di Franco c’è una ragazza che desidera lavorare in televisione e diventare ballerina in una trasmissione serale

Quando nel 1990 Raffaella Carrà va in Spagna e poi, con sempre maggiore frequenza, inizia a lavorare lì maturando una notorietà quasi pari a quella che ha in Italia, in realtà già è conosciuta a Madrid e dintorni. Tra il 1975 e il 1980 i suoi dischi sono quasi tutti dei successi, così tanto che nel 1976 i canali di stato le dedicano un programma monografico. Dunque, prima le canzoni, poi la televisione e ora anche il cinema. Ballo ballo, in originale Explota Explota (la versione spagnola di Scoppia Scoppia, che è un verso di A far l’amore comincia tu), è un musical di due ore pensato, scritto e girato in Spagna da Nacho Álvarez (con una quota di coproduzione italiana) basato sulle canzoni della Raffa nazionale. I brani sono riarrangianti e ricantati e, a differenza di quel che accade di solito con i musical, la versione italiana li ricanta di nuovo (del resto sarebbe assurdo per noi sentirli in spagnolo).

La storia di Ballo ballo su Amazon Prime Video è un classico dei musical, che spesso raccontano la preparazione di uno spettacolo (come Chorus Line) o di qualcuno che vuole entrare nel mondo dello spettacolo (di recente La La Land): al centro c’è una ragazza che desidera lavorare in televisione e diventare ballerina in una trasmissione serale. È il 1973, fase terminale della dittatura franchista oscurantista, bigotta e pronta a censurare tutto, ma la protagonista è dotata di un sex appeal che non può nascondere, in più  non vuole rinunciare a essere se stessa. Che è quello che fa per davvero Raffaella Carrà, quando in un sistema non certo progressista come la RAI della Democrazia Cristiana, introduce idee, testi e atteggiamenti liberi e per tanti versi inaccettabili per una donna la cui immagine è un modello per altre donne.

Dietro alla trama principale, c’è l’eterna storia della liberazione dai lacci paterni. L’ingresso in tv di Raffaella Carrà è soggetto ai tagli del censore e di suo figlio, che si innamora subito di lei e che dovrà decidere se dar retta al padre o al cuore (chissà che deciderà, eh?!). Nella vecchia Spagna di Franco, dice il film, il pubblico che guarda quelle trasmissioni è più avanti, desidera qualcosa di moderno, libero e sessualmente audace. Qualcosa, insomma, che fa eco con la storia di Raffaella Carrà, che alle censure per l’ombelico mostrato risponde con un gradimento imbattibile, proprio per quella ragione.

Ballo ballo è un film piccolino, a budget contenuto e sempliciotto, ma ha una carica vitale e un approccio imbattibili. Non solo sceglie le canzoni di Raffaella Carrà per raccontare una storia che ben si accoppia con quelle musiche e a quel che dicono, ma ha la raffinatezza di utilizzare (quasi) sempre mosse, movenze e coreografie originali. Perché capisce che quella parte della Raffa nazionale era importante tanto quanto la sua determinazione, il suo look, i suoi colori. Purtroppo, il problema di Ballo ballo è che è scritto abbastanza male, senza l’autoironia che potrebbe dargli un senso.

Ma è messo in scena con i colori, il senso divertito del kitsch e la voglia di stravaganza del cinema queer. Raffaella Carrà, del resto, è amatissima dalla comunità Lgbt+ in Italia come in Spagna (quando Pedro Almodóvar è venuto da noi per la prima volta a promuovere un film, ha voluto subito realizzare il sogno di incontrarla). E, come sempre nel cinema queer, il punto di tutto è farci partecipare al desiderio di riscatto di qualcuno di eccentrico in un mondo pieno di regole che limitano la sua vitalità e vogliono omologare la sua diversità.

Inevitabilmente vedere Ballo ballo con lo sguardo contemporaneo fa un po’ ridere. Dopo anni in cui lo sfruttamento del corpo della donna in televisione è stato condannato, messo al bando e stigmatizzato per quello che è, qui si racconta di qualcuno che fa del mostrare il proprio corpo in tv una lotta femminista. E cioè l’opposto. Ma, forse, è proprio questa la forza del film: un difficile e riuscito mix di sciocchezza, leggerezza e kitsch a costi modesti dimostra come certe battaglie sono sempre per la libertà di decidere del proprio corpo, sia quando sono finalizzate a distruggere l’imposizione di mostrarlo sia quando sono finalizzate ad abbattere il mondo che impone di non mostrarlo.

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