Cosa possono (e non possono) dirci i test genetici sul rischio Covid-19


Che informazioni si possono trarre dall’analisi del proprio dna, e in che misura è utile ai fini pratici per difendersi dal Sars-Cov-2 e dal Covid-19? La ricerca scientifica sta facendo passi avanti importanti, ma le applicazioni in termini di prevenzione sono ancora poco chiare

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(foto: Louis Reed/Unsplash)

L’idea è chiara: analizzare il proprio dna per ricavare informazioni utili sulla predisposizione al Covid-19, partendo da qualcosa di così semplice come un campione di saliva. Non stiamo parlando ovviamente dei test sierologici, che servono a verificare la presenza di anticorpi in circolo e richiedono almeno una goccia di sangue. E non si tratta nemmeno del tampone rino-faringeo, con cui si cercano le tracce del coronavirus nella cavità nasale e orale, da analizzare in modo rapido oppure con il test molecolare Pcr. Qui, invece, si parla di analizzare il materiale genetico umano della singola persona, per identificare geni specifici associati al rischio di ammalarsi in forma grave.

Una prospettiva sulla carta molto interessante, anche banalmente per una questione di approfondimento scientifico, e che di recente sembra anche essersi concretizzata in proposte che sono arrivate fin sul mercato. E sulla quale, lo anticipiamo fin da subito, resta più di un dubbio. Ma andiamo per ordine.

Cosa c’entra la genetica con il Covid-19

Il punto di partenza di tutto questo filone di ricerca e sviluppo, che poggia su solide basi scientifiche, è uno studio pubblicato lo scorso ottobre sulla prestigiosa rivista Nature, rafforzato anche da una ricerca del New England Journal of Medicine. In estrema sintesi, è stato dimostrato che alcuni specifici geni (che sono tra quelli che abbiamo ereditato dai Neanderthal) aumentano il rischio di sviluppare forme più serie della malattia. Un risultato che, almeno in termini di traguardo scientifico, si potrebbe definire straordinario.

In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che la sequenza genetica incriminata è lunga circa 50mila basi azotate, si colloca sul cromosoma 3 e corrisponde a un segmento di dna posseduto circa dal 16% della popolazione europea e dal 50% di quella asiatica. Per l’Italia ci sono alcune stime che valutano una frequenza del 14%. Per queste persone si è calcolata una probabilità grossomodo doppia di sviluppare una forma grave dell’infezione da Sars-Cov-2, quantificata in un rischio 1,6 volte più alto di avere bisogno di un ricovero in ospedale.

Non c’è quindi dubbio, almeno stando alla letteratura scientifica disponibile a oggi, che la correlazione tra Covid-19 grave e gene Neanderthal sia di tipo causale. Una correlazione che tra l’altro è stata studiata complessivamente su un campione di oltre 5mila ospedalizzati, a cui si aggiungono poi le persone arruolate nei vari gruppi di controllo. E che potrebbe anche aprire a nuove prospettive farmacologiche e terapeutiche pensate ad hoc. Come abbiamo già raccontato qui su Wired, e come ha scritto anche Nature, la situazione è pero molto complessa: i geni che hanno una correlazione di causa-effetto con le forme gravi di Covid-19, infatti, sembrano essere parecchi.

Come funzionano i test e che cosa possono dirci

Dal punto di vista clinico l’esecuzione del test è facile come bere un bicchiere d’acqua. Anzi, come sputarlo: in pratica è infatti sufficiente un semplice campione biologico come qualche goccia di saliva per riuscire a determinare la presenza o l’assenza del gene Neanderthal. Un procedimento che oggi è piuttosto semplice e che, svolto in laboratori di analisi specializzati, può garantire un’affidabilità e un’accuratezza piuttosto elevata, riducendo a casi eccezionali i falsi positivi e i falsi negativi.

A meno di auto-sabotarsi il proprio campione, chi sviluppa test salivari di questo genere garantisce che è difficile ci siano inghippi. Basta non mangiare o bere (soprattutto caffeina) subito prima di eseguire il prelievo di saliva, e ovviamente non contaminare il campione. Alla fine quindi l’esito del test – che non è immediato, perché serve un’analisi di laboratorio che può richiedere anche alcuni giorni –  è un sì o un no, a seconda che si possegga o meno la sequenza genetica ereditata dai Neanderthal. Va comunque detto, tuttavia, che a oggi non risultano test genetici specifici per il rischio Covid-19 che siano approvati da Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Ministero della salute o altre istituzioni italiane o europee. Né esistono pubblicazioni scientifiche relative a questi test, se ci si limita alla questione Covid-19 e Neanderthal.

Il limite del test non è il test

Al di là delle questioni di approvazione e validazione, che meritano sempre grande attenzione, non è però il test in sé la principale fonte di perplessità. Ma piuttosto l’utilità pratica dell’informazione che se ne deduce, qualunque sia l’esito del test genetico in questione.

Il possedere il gene Neanderthal non implica necessariamente che – qualora si contraesse l’infezione virale – il Covid-19 si svilupperà in forma grave. Così come il non possedere il gene non dà di per sé alcuna garanzia di soffrire solo di una forma lieve della malattia in caso di infezione. E inoltre non ci sono risultati scientifici che diano una quantificazione o una descrizione più precisa della dicotomia grave-non grave, visto che tutti gli studi eseguiti hanno usato come discrimine la sola ospedalizzazione dei pazienti.

Per di più, anzi in realtà ancora più importante, il gene Neanderthal non è l’unico né il principale fattore di rischio per il Covid-19. Le evidenze sulla letalità della malattia, infatti, ci dicono che per esempio è decisamente più rilevante l’età anagrafica del paziente, che può determinare una variazione del rischio di ospedalizzazione e aggravamento del quadro clinico ben più alta di un fattore 2. Così come è decisiva la presenza di comorbidità, ossia di patologie pregresse: un dato ben noto ed evidente fin dai primi mesi della pandemia. E pure l’essere di sesso maschile è associato a un rischio aumentato di sviluppare forme gravi di Covid-19. Ciò non significa che il gene Neanderthal non abbia un ruolo, ma si tratta comunque di un aspetto che si potrebbe definire marginale.

Cosa fare se si ha il gene Neanderthal?

Partiamo dal livello individuale. Che differenza fa, al di là del piacere di saperlo, essere consapevoli di possedere o meno il gene Neanderthal? Anche chi non lo possiede, e quindi è meno a rischio, non può certo basarsi su questo solo elemento per disinteressarsi della pandemia o per abbassare la guardia, dato che ha appena 1,6 volte di meno il rischio sviluppare una forma grave. Inoltre, visto che può infettarsi con il virus e trasmetterlo come tutti gli altri, dovrà comunque continuare a rispettare tutte le misure di contenimento anti-contagio. Viceversa, chi possiede il gene problematico dovrà certamente prestare attenzione, ma l’avrebbe dovuta prestare comunque. Parlare di fare più attenzione o meno attenzione, insomma, non ha alcun senso, perché la cosa più sicura da fare è una sola: cercare di non infettarsi con il virus.

Se si guarda alla questione a livello di popolazione generale, si potrebbe sostenere che quelle persone (circa 1 su 6) che possiedono il gene Neanderthal dovrebbero in qualche modo avere la precedenza e la priorità, perché più a rischio. E che quindi dovrebbero avere una corsia preferenziale, per esempio, per il vaccino o per l’assistenza sanitaria.

Tuttavia, in termini pratici ci sono almeno tre ordini di problemi. Il primo è che il rischio associato al Neanderthal è comunque secondario rispetto ad altri fattori come l’età o la presenza di altre patologie, quindi nella campagna di vaccinazione si tratterebbe di una ri-taratura fine. Si dovrebbe procedere in ogni caso per fasce d’età e per presenza di patologie concomitanti, come finora il piano vaccinale prevede, e solo a parità di tutte le altre condizioni si potrebbe prevedere un ulteriore scaglionamento. Che, in termini di gestione, potrebbe essere più una complicazione che altro.

In secondo luogo, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, si potrebbe pensare di intervenire in modo più precoce o più deciso sui pazienti con gene Neanderthal contagiati, ma non è chiaro che cosa questo significherebbe all’atto pratico. Anche perché l’essere precoci nell’intervenire è un vantaggio per chiunque. E infine, ma non per importanza, qualunque strategia potrebbe avere senso solo se fossero eseguiti test a tappeto su tutta la popolazione, o comunque su un gran numero di persone. A meno di pensare a fantasiose soluzioni come un grottesco patentino da Neanderthal che garantisca dei privilegi.

Contando anche che si tratta di test molto semplici e non invasivi dal punto di vista del paziente, ma nient’affatto banali dal punto di vista laboratoriale e dei costi, tutto ciò lascia intendere che i test genetici difficilmente potranno essere un elemento decisivo per uscire dalla pandemia. Potrebbero forse dare un contributo minoritario, ma bisognerebbe anzitutto definire una strategia di utilizzo. Strategia che, a oggi, non esiste né in Italia né altrove.

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