Il nuovo video di Andrea Laszlo De Simone è una (vera) finestra sul mondo


Con il video di Vivo il musicista ci collega in diretta con i posti più lontani. Proprio lui che non sembra particolarmente tecnologico e tre giorni fa ha addirittura abbandonato lo smartphone: “Negli ultimi quattro anni in cui l’ho utilizzato penso di essere peggiorato”

Vivo è la nuova canzone di Andrea Laszlo De Simone, artista torinese che riesce a comprimere immaginari ampi e sensazioni neorealiste con uno sguardo disincantato sulla realtà e non solo. Il brano è uscito qualche ora prima del Capodanno, a sorpresa, su un sito creato ad hoc per l’occasione (Vivo.tv), rimasto online solo 12 ore, che ha traportato le persone dalla propria casa ai luoghi più reconditi del mondo. Sì perché, mentre il pezzo veniva diffuso, tramite un software è stato possibile vedere in diretta posti lontanissimi come in una vera installazione audio-video dall’effetto straniante: Time Square, gli orsi polari e la Terra vista dallo spazio. Il tutto amplificato della forte evocatività della canzone. Ora, è possibile rivivere questa esperienza cliccando qui. A raccontare la genesi del progetto è lo stesso Andrea Laszlo De Simone in questa intervista. Il suo ultimo album risale al 2019, L’Immensità (via 42 Records), che ha compresso per noi in un emozionante concerto in diretta streaming al Wired Next Fest di ottobre 2020.

Intanto, perché Vivo?

“Per restare su rispetto alla situazione attuale”.

E perché trasmettere il brano per 12 ore durante l’ultimo Capodanno con le immagini in diretta da tante parti del mondo?

“Durante il primo lockdown ho scritto una canzone che pensavo di far uscire contestualmente. Con Daniel C Triniti, il mio manager e bassista nei live, ci siamo interrogati sul modo migliore di presentarla al pubblico e lui ha accennato all’idea di accompagnarla con delle immagini di piazze vuote. Poi, quando ho composto Vivo, mi è tornata in mente e ho deciso di fare un resoconto visivo del Capodanno in tutto il mondo per mostrare posti diversi in condizioni diverse”.

Sembri un artista molto più analogico che digitale: qual è il tuo rapporto con la tecnologia?

“Tre giorni fa ho abbandonato lo smartphone: negli ultimi quattro anni in cui l’ho utilizzato penso di essere peggiorato umanamente e di aver perso buona parte del senso critico”.

Spiegati meglio, per favore. 

“Siamo troppo dentro la narrazione, troppo sollecitati. Nell’esatto momento in cui ci stiamo scandalizzando, per esempio, per ciò che fa Donald Trump, stiamo anche già ridendo dei meme che lo riguardano. Morale: tutto perde di senso e al contempo è difficilissimo restare ancorati agli ideali, perché qualunque cosa si svuota di significato. Compresi i sentimenti, che sono ancora risorse molto importanti sia per la conquista dei diritti sia per gettare le basi del futuro dei nostri figli”.

È il lockdown ad averti ha fatto venire voglia di abbandonare lo smartphone?

“Probabile, anche se non ho mai avuto un ottimo rapporto con il cellulare. Ogni volta che me lo regalavano, lo regalavo ad altri. Poi, quattro anni fa, per lavoro, mi sembrava fosse una cosa giusta utilizzarlo. Ma adesso ci ho ripensato: è molto più semplice darsi appuntamento e parlarsi di persona, e concentrarsi solo su quello”.

Ti sentivi dipendente dallo smartphone?

“Di droghe ne ho usate, ma credo che lui sia la peggiore da un certo punto di vista. Ora ho un vecchio Nokia, giusto per telefonare: tornare a mandare sms è scomodissimo”.

Sei stato ospite all’ultimo appuntamento del Wired Next Fest 2020: era il tuo primo concerto mattutino in streaming senza pubblico?

“Credo di sì. Ed è stato strano ma bello, più che altro perché non sono abituato a suonare alle 10.30”.

Ti piace stare sul palco?

“Non sono il tipo che cerca l’applauso o che nasce per i live: è un’esperienza che mi mette sempre in difficoltà e in imbarazzo, ma è anche il vero lavoro. Mi piace chiudermi in sala prove, dove non possono esserci altri musicisti, e registrare: è un processo intimista, egoista; il concerto invece è condivisione”.

Chi sono i tuoi riferimenti musicali?

“Ho sempre ascoltato pochissima musica. I miei riferimenti arrivano dalle colonne sonore dei film del neorealismo che amavano i miei genitori e che di conseguenza assorbivo anch’io”.

In effetti, la tua musica funziona da colonna sonora: non come sottofondo, bensì come mezzo per narrare. Immensità, il tuo ultimo disco, per esempio, è una lunga suite divisa in quattro parti che raccontano le fasi dell’elaborazione del lutto: il sogno, la realtà, lo spazio e il tempo.

“L’idea è nata proprio dalla ciclicità: fasi di profondo ottimismo, seguite dallo smarrimento e dopo ancora dalla faticosa e inevitabile rinascita. Poi, da capo”.

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