Willy è già sparito, i clic si fanno con le biografie dei cattivi


Invece di concentrarsi sulle vittime gran parte del sistema mediatico continua a raccontare la cronaca nera come un violento battesimo criminale

Nelle ultime 48 ore abbiamo saputo tutto, ma proprio tutto, dei quattro – ma sarebbero cinque – indagati per l’assassinio del 21enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro, vicino Roma. In particolare dei due fratelli Gabriele e Marco Bianchi, 26 e 24 anni. Abbiamo le loro immagini pescate dai social network, tutte muscoli e tatuaggi, fisici asciutti, sguardi aggressivi da teste calde di provincia. Abbiamo l’intervista al maestro di MMA, la disciplina che praticavano con un certo successo e che non hanno esitato a sfoderare in mezzo alla strada, tradendo ogni principio anche perché quella disciplina i principi della altre arti marziali, da cui ha tratto mosse e tecniche più efficaci, le ha perse da tempo o forse non le ha mai acquisite. Perfino lo stato interessante della fidanzata di uno dei due. I modelli di auto possedute e guidate dalla famiglia. Addirittura la ripetizione in loop dell’assurda intervista che il Tg3 aveva fatto a uno dei due poche settimane fa, all’apertura di una frutteria a Cori. In questa costruzione di un orrore, Willy è già sparito.

Basta aprire una qualsiasi home page, ma anche girare sui social, ed esce di tutto: ci sono i video in cui si allenano in palestra e i post triviali pubblicati su Facebook poco dopo il pestaggio mortale. Insomma, c’è l’immancabile volontà di andare ben oltre il profilo cronachistico di due personaggi – gli altri fermati, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, sono stati immediatamente declassati a comprimari – che si allineano perfettamente a un tipo narrativo. Gli assassini, certo. Ma anche gli eroi negativi di cui indagare i corpi scolpiti e la vita già oltre le possibilità di un qualsiasi ventenne. Fanno traffico, portano visite, stimolano l’immaginazione distorta sul superomismo “di idee destrorse”, nutrito – come spiega il regista Daniele Vicari su Repubblica – “da un immaginario da cronaca nera e serie tv”. Il punto è che ormai trasformiamo troppo spesso la cronaca nera in una serie tv: quella in cui della vittima si perde traccia dopo il primo minuto del primo episodio, e tutta la storia finisce per celebrare l’identità dei carnefici.

Intendiamoci. La cronaca deve fare il suo lavoro. Ed è giusto, anzi doveroso, che il ritratto che fornisce di un fatto, dei protagonisti e dei suoi sviluppi sia il più completo possibile. Invece a un certo punto bisognerebbe fermarsi: cosa aggiungono quell’intervista televisiva proposta a ripetizione o le sessioni di allenamento dei fratelli Bianchi alla comprensione dell’assassinio? Nulla. Contribuiscono invece a infilarci in un “frame”, a imprigionare il fatto violento in una cornice narrativa a noi molto nota. Quella dei programmi televisivi spazzatura, delle serie sul crimine organizzato, dei pregiudizi su certe discipline e perfino – incredibile – sui tatuaggi: insomma non ci aiutano a capire meglio, ci forniscono una scorciatoia per sceneggiare un contesto. In definitiva, per semplificare invece di cogliere un fatto nella sua complessità. È il rischio che si corre quando dal resoconto di cronaca si passa alla sceneggiatura, puntellata da tutto quello che le piattaforme digitali tornano puntualmente a vomitare.

Willy, invece, rivive solo nelle parole di un’intervista a uno degli amici, sotto shock. Poco altro, se non il commento a caldo del responsabile dell’hotel in cui lavorava come aiuto cuoco. Non c’è la volontà di costruire un qualche tipo di narrazione intorno a lui, che non c’è più. Il ragazzo capoverdiano diventa coprotagonista, e forse perfino comprimario, della sua stessa morte. Assiste alla solenne trasformazione dei suoi carnefici da persone a personaggi, perché secondo alcuni più di lui rispondono alla sete del pubblico, alla curiosità morbosa degli utenti, alla sociologia da quattro spiccioli dei criminologi della seconda serata.

Un ragazzo perbene, lavoratore, che con uno slancio di altruismo ha tentato di aiutare un vecchio compagno di classe in pericolo non fa traffico, neanche da morto. Anzi, forse solo da morto. Invece di concentrarsi sulle vittime gran parte del sistema mediatico – e gli immancabili pomeriggi dei salotti televisivi ci riserveranno nuove, imperdibili angolazioni del vuoto – continua a raccontare la cronaca nera come un violento battesimo criminale.

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